Economia della conflittualità 

Durata: 10 ore

Programma

SPS/08
Docente: Prof. Giorgio Dominese

Programma
Il Corso, afferente al settore disciplinare di Economia internazionale Applicata SECS-P/06, intende offrire agli studenti strumenti teorici e metodologici per valutare, analizzare e governare situazioni di conflittualità nell’ambito transazionale e con riferimento soprattutto all’impatto della fenomenologia sul sistema economia e finanziario globale e delle principali regioni-mondo di riferimento. Il corso si svolgerà prevalentemente in lingua inglese ed i testi verranno selezionati tra quanto di più aggiornato ed avanzato sia offerto dalla pubblicistica scientifica internazionale.
La conflittualità è uno degli esisti e delle implicazioni delle transizioni, che erroneamente sono state spesso classificate, soprattutto dal 1989, quali metamorfosi dal sistema bipolare di economia pianificata a quello di mercato competitivo. Sotto i nostri occhi, in verità, si sta svolgendo una delle più impegnative transizioni dell’ultimo secolo, dove i principali attore internazionali sono impegnati a realizzare una architettura di “governance” multipolare e fortemente integrata, con spazi vasti ed ancora inesplorati di “institutional building”, oltre che in presenza di uno sciame conflittuale crescente in larga parte dovuto al progressivo collasso degli strumenti tradizionali delle relazioni internazionali e dell’impiego della deterrenza militare.
Le riforme strutturali che impegnano i paesi industrializzati e quelli emergenti più dinamici rappresentano, a tutti gli effetti, un conflitto latente e spesso palese tra l’approccio classico del governo – attraverso lo schema ben sperimentato dello stato-nazione e degli interessi della sovranità che lo accompagna – e la “governance” transazionale, dove 10-15 regioni-mondo sono di fatto protagoniste dello sviluppo economico-finanziario ma anche dell’ordine internazionale, in attesa della riforma, anche questa strutturale, delle Nazioni Unite.
Disgiungere la “triade” economia, finanza e sicurezza non è infatti più possibile nel sistema glboale; questa convergenza, ogni giorno più stretta ed a volta avvertita come soffocante, è ormai ineluttabile. L’Unione Europea intanto è diventata moto competitiva e da tutti attentamente studiata, valutata e monitorata. Una grande potenza eterodossa - “soft-power” la definiscono alcuni autori -, che è cresciuta sotto gli occhi distratti degli stati, perfino di alcuni dei paesi che ne sono membri. Con le contraddizioni, le carenze, i paradossi di un’architettura che non si pone nella continuità politica e storica dello stato-nazione, ma ambisce dichiaratamente a diventarne lo stadio successivo. Un laboratorio di straordinaria importanza per il mondo intero.
Dall’altro lato di questa funzione della transizione - che si può ormai studiare seguendo i sofisticati metodi quantitativi a disposizione e soprattutto le serie di dati su variabili e sotto insiemi di variabili, mai prima ponderate comparativamente -, si pongono i paesi emergenti, ed in primis l’Asia, dunque la Cina, ma che l’India, il Sud Est asiatico, senza dimenticare l’attore che ancora resta primario nei futuri assetti regionali del Far East, il Giappone. Ma poi anche il Brasile, il Messico, il Nord Africa, il grande malato Medio Oriente.
La resistenza al cambiamento si manifesta nella conflittualità, che assume valenze sociali, ambientali, tecnologiche, innovative, educative, generazionali, strategiche, etiche e valoriali, come mai si è visto dall’inizio del Novecento. Ne è espressione massima la Russia di oggi - erede dell’Unione Sovietica, che non ha ancora superato il trauma del dissolvimento della grande federazione, dal Baltico all’Eurasia - , che è alla ricerca di uno “standing” simile a quello del passato; ma il passato non ritorna, va dunque inseguito il futuro e le sfide imponenti che vengono poste in questi decenni verso il 2030-2040.
Occorrono idee, talenti e leadership in grado di traghettare il sistema ed i cittadini verso una diversa soggettualità nazionale ed internazionale. Anche alcuni valori del millenarismo patriottico possono rivelarsi ancora attuali purché la nuova, dirompente “conditionality” transnazionale non venga offesa, minacciata, ripudiata culturalmente, prima che nelle azioni di governo della politica e dell’economia.
Lo studio della conflittualità esprime infatti un’area di conoscenze e discipline traversali in grado di contenere intellettualmente la spinta antitetica al cambiamento che proviene dalle tentazioni restaurative, perché il sentiero di crescita e sviluppo – in presenza di innovazione geometrica pervasiva e tecnologie ritenute fino a ieri irraggiungibili –, pretende di proseguire dinamicamente ed intensamente, annunciando al contempo di voler ridiscutere l’ordine internazionale. Il “risk management” geopolitico impone in questo caso competenze e professionalità altrettanto sofisticate di quello “corporate” dell’economia e della finanza.
Un orizzonte così vasto andrà drasticamente riportato alla realtà del Corso e dei suoi reali spazi di trasferimento di analisi comparative e metodologie di gestione della complessità. Senza tuttavia perderne il contenuto essenziale ed il valore aggiunto delle scuole di pensiero che si sono attestate sulla frontiera avanzata del governo del cambiamento. La focalizzazione si manifesterà dunque nelle nuove teorie della crescita; nel trasferimento tecnologico in generale ed in particolare dai settori strategici della difesa verso l’industria civile più avanzata; nel capitale umano e generazionale; nell’approccio regionale alla “governante” mondiale; infine, nei settori sempre più vasti di convergenza del pubblico e del privato, in presenza di una domanda dirompente di investimenti infrastrutturali, durevoli e competitivi, che va assolutamente al di fuori della capacità e delle risorse dell’uno di governare senza l’altro. La “triade” è in grado di imporre il metodo e le regole della convivenza al più basso livello di conflittualità.


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